Pubblichiamo la lettera di Annalisa, volontaria di Insieme con Humanitas, per testimoniare l’impegno del personale di Humanitas nell’affrontare l’emergenza.
Vorrei fare una cosa che avrei dovuto fare molto tempo fa: ringraziare la Fondazione per l’aiuto che mi è stato dato quando mio marito era degente per Covid nel nostro ospedale di Rozzano.
Trenta giorni (più quindici in un’altra clinica per la riabilitazione) e le prime due settimane io ero in quarantena, sola a casa; mia figlia a sua volta in quarantena a casa sua a Milano perché era venuta un paio di volte a casa a trovare il papà malato, prima del ricovero.
Trenta giorni di alti e bassi, oggi migliora, domani peggiora, la polmonite virale sta regredendo, una polmonite batterica lo aggredisce.
Ho cercato di resistere, ma, sollecitata anche dal mio referente, Franco, un giorno non ce l’ho più fatta e ho chiamato Chiara (psicologa di Insieme con Humanitas). Mi ha ascoltata, mi ha trasmesso serenità, sentivo che mi capiva. Mi ha richiamata nei giorni successivi, finché un giorno ho potuto dirle che mio marito era fuori pericolo, quasi guarito, ancora positivo, ma il tunnel stava per finire.
So che Franco si è dato da fare, perché mi arrivasse qualche notizia in più su Mario, nei giorni più bui. Non me l’ha detto, ma me ne sono accorta.
L’aiuto ricevuto dalla Fondazione è stato solo uno degli aiuti che in quei 50 giorni ho ricevuto. Ma quando ad aiutarti è il tuo gruppo, o la tua associazione, vivi il sostegno che ricevi più profondamente: ti accorgi che sei passata dall’altra parte della barricata, sei diventata il familiare di un paziente. Uno di quei familiari che nel tuo lavoro di volontaria incontri e intrattieni, e magari aiuti e magari consoli, anche solo ascoltandoli quando devono tirar fuori paure, incertezze, quando hanno bisogno di un sorriso, di poche parole e tanto ascolto.
“Adesso anche tu” mi dicevo “se il familiare di un ricoverato”. Capisci come aumenta la sensibilità, la fragilità, l’importanza anche delle sfumature, come ogni emozione si amplifichi, com’è brutto temere di essere di disturbo, non osare chiedere aiuto o sentirsi in colpa quando lo chiedi, “io la chiamo e lei magari sta con una persona che sta peggio di me”.
Capisci quanto è importante sentire che chi ti ascolta lo fa volentieri e quando metti giù il telefono ti senti meglio, la tempesta dentro ti dà una tregua.
Mio marito è guarito, sta seguendo il percorso di controlli previsto, oggi è un 77enne che va in piscina a nuotare e in bicicletta. Dell’Humanitas, quando qualcuno gli chiede come va, parla con ammirazione, non solo per la competenza di tutti i sanitari (tirar fuori un quasi ottantenne da due polmoniti dopo che era arrivato al lumicino, non è da tutti), ma anche per la straordinaria “Humanitas” che gli hanno profuso in quei 30 giorni, giorno e notte: “Ci sono stati momenti in cui ho avuto l’impressione che addirittura mi volessero bene. Veri angeli. E pensare che oggi se li incontrassi nemmeno li riconoscerei, tutti bardati com’erano nei loro scafandri”.
Io in queste settimane boccheggio sotto il camice e la mascherina all’accoglienza, due ore per volta: loro come facevano a resistere e lavorare e far fronte a tutto, vestiti da palombaro per tutta la giornata? Forza fisica e forza d’animo straordinarie.
Grazie!
Arrivederci a presto. Annalisa