Guardavo quelle due figure che si allontanavano pian piano, tenendosi per mano, dopo che alla visita della mattina avevano avuto un responso che dava loro un po’ di speranza.
Una, la madre, molto più minuta della figlia, dimostrava una quarantina d’anni, con il viso segnato dalle prove che il destino aveva a lei riservato, teneva stretta al petto la cartellina con i referti e le indicazioni per l’intervento chirurgico che la figlia, a breve, avrebbe sostenuto.
L’altra, Mariella, la figlia, appunto apparentemente incosciente di ciò che l’aspettava e molto più alta, sbatteva le sue lunghe gambe a destra e sinistra. Non riusciva a coordinarne il movimento e senza l’aiuto della madre che in effetti la sosteneva, sarebbe inciampata e caduta. Questo, oltre ad altri, era il suo problema. Mariella era una ragazza cerebrolesa che aveva notevoli difficoltà di espressione e problemi chiari di deambulazione.
Quella mattina, una nuvolosa mattinata di inizio autunno, le aspettavo entrambe nell’atrio dell’ospedale per accompagnarle ad una visita ortopedica programmata da tempo per stabilire l’opportunità e la possibilità di migliorare le sue capacità motorie. Ero un pochino preoccupato, non sapevo come pormi di fronte ad una paziente del genere; era poco che svolgevo la mia attività di volontariato e fino a quel momento mi ero occupato di pazienti anziani solo un po’ mal fermi sulle gambe, ma in possesso delle loro facoltà. Si trattava di agevolarli nello svolgere le pratiche amministrative, di condurli all’accettazione di visite già prenotate, o di guidarli agli ambulatori attraversi il labirinto dell’ospedale.
Questo era un caso un po’ diverso.
Avevamo avuto indicazioni circa il comportamento da tenere in questi casi, ma, come ben si sa, la realtà può essere diversa dalla teoria.
Arrivai in ospedale con un po’ di anticipo, non volevo correre il rischio di farmi attendere, sarebbe stato imperdonabile.
Dopo circa mezz’ora di attesa le vidi arrivare. La madre aveva un atteggiamento dimesso e preoccupato, come dimesso era i loro abbigliamento, che denotava una condizione economica precaria. Immaginabili erano i sacrifici sostenuti per curare la figlia. In una mano stringeva una borsa di plastica che conteneva le innumerevoli radiografie alle quali era stata sottoposta Mariella. Stringeva quella borsa con forza, quasi fosse molto più pesante di quanto era in realtà. Per lei lo era. Colma di frustrazioni e di speranze future. Come entrarono, sebbene non fosse la prima volta, si fermarono un po’ impaurite, girando lo sguardo interrogativo in attesa che qualcuno si avvicinasse a loro come gli era stato promesso.
Andai loro incontro presentandomi e vidi immediatamente il diverso atteggiamento delle due donne: la madre mi sorrise rassicurata, Mariella, per contro, mi squadrò con antipatia quasi nascondendosi dietro la mamma, della quale non lasciò la mano che in qualche modo la confortava, pronunciando parole per me incomprensibili.
Mi bloccai. In cosa avevo sbagliato? La signora accorgendosi del mio imbarazzo mi rassicurò: «Non abbia timore lei vuole farsi visitare da quello che chiama il ‘suo’ dottore e da nessun altro. L’ha scambiata per un medico probabilmente per il camice bianco che indossa».
Mi avvicinai un pochino camminando piano, guardandola negli occhi e, tentando di rassicurarla, le spiegai, incerto tuttavia che mi capisse: «Mariella non devi aver timore di me. Devo solo accompagnarti dal tuo medico. Sai quello bravo e simpatico, quello che ti ha vista l’altra volta. Io poi non sono nemmeno un dottore e non potrei certo visitarti». A quelle parole Mariella, che evidentemente aveva capito benissimo e si era pertanto rassicurata, mi si avvicinò e a me parve addirittura che un sorriso, appena accennato, comparisse sulle sue labbra. O forse era solo una mia impressione. Quando le fui più vicino, inaspettatamente, mise un suo braccio attorno al mio e quasi mi spinse verso gli ambulatori.
Anche la madre fu piacevolmente sorpresa dall’atteggiamento della figlia e rasserenata, mi confessò: «Le deve essere simpatico: non succede spesso che si comporti in questo modo con degli estranei, soprattutto in un ambiente medico. È stata sottoposta a tante e tali visite che diffida di tutto e tutti, tranne dell’ortopedico che abbiamo trovato qui. Forse è la barba, oltre alle parole che ha detto, che le ha dato fiducia: anche il padre la porta, proprio come la sua, appena accennata». Ci incamminammo verso la scala mobile che ci avrebbe portato agli ambulatori del primo piano, senza staccarci nemmeno un attimo, sempre sottobraccio. Mariella si appoggiava a me tirandomi con forza il braccio; senza il mio aiuto, con ogni probabilità, avrebbe avuto notevoli difficoltà a proseguire senza inciampare. Arrivammo in breve di fronte alla sala visita e ci sedemmo in attesa della chiamata.
Dopo qualche minuto il ‘suo’ ortopedico la chiamò con quel suo solito tono tra il burbero e lo scherzoso ed in quel momento pensavo mi avrebbe lasciato, ma non fu così. Non mi lasciò affatto, anzi ci fece capire che voleva che entrassi con lei nella sala visita. Il medico non oppose alcuna obiezione e così entrai e, da un angolo, dopo averla aiutata a stendersi sul lettino, assistetti alla visita.
Solo alle conclusione, quando il medico volle spiegare alla madre come si sarebbe svolto l’intervento e le possibilità di riuscita chiesi di non essere presente: non mi sembrava giusto ascoltare. Mariella, che nel frattempo era scesa dal lettino, mi aveva ripreso sottobraccio e volle uscire con me. Mentre attendevamo che anche la madre ci raggiungesse, incominciò a parlare, o meglio ad emettere suoni per me incomprensibili; voleva evidentemente instaurare con me un rapporto verbale, che non riuscii a stabilire per la difficoltà di comprensione reciproca. O meglio lei, con ogni probabilità mi capiva: ero io, con mio profondo rammarico, che non riuscivo a stabilire un contatto.
Quando la mamma uscì mi parve che il suo viso fosse un po’ rasserenato; mi confermò, infatti, che un intervento sarebbe stato possibile e che avrebbe migliorato le sue condizioni.
Venne il momento salutarci. Ci incamminammo verso l’uscita dell’ospedale, Mariella ed io sempre sottobraccio. Venne il momento di staccarci. La ragazza, inaspettatamente, dopo avermi lasciato il braccio, mi accarezzò il viso e poi prese la mia mano e si accarezzò il suo di viso. Questa volta, ne fui certo, un leggero sorriso lei illuminava tutta la faccia. Eravamo diventati amici.
Le vidi andare, e mi parve che anche il tempo fosse migliorato, un pallido sole aveva fatto capolino tra le nuvole. O era sola la mia immaginazione, frutto di quella mattinata trascorsa con Mariella? Non l’ho più rivista. Non so come è andato l’intervento. Credo, anzi ne sono certo, che quel giorno ho più avuto che dato e mi sono convinto a proseguire nel mio volontariato.
A cura di Massimo Moretti, volontario dal 2002